Nell’ultimo articolo abbiamo esplorato il lato violento della vita monastica e l’atteggiamento ribelle verso i samurai.
L’assoggettamento della comunità di Hongan-ji pose fine al potere politico delle scuole buddhiste, imponendo limiti precisi alla loro autonomia.
Durante la successiva epoca Edo, furono emanate leggi volte a impedire che fenomeni come ikkō-ikki — il braccio armato degli abati amidisti — potessero ripresentarsi.
I templi assunsero funzioni simili a quelle dei municipi: dovevano registrare i membri della comunità locale e verificare che non vi fossero cristiani o individui “problematici”. Solo i monaci potevano rilasciare documenti essenziali per la vita quotidiana — equivalenti dei nostri certificati di nascita, residenza, matrimonio — e chi non accettava l'inserimento in questo sistema era escluso dalla vita burocratica prima ancora che sociale.
Ai templi era vietato occuparsi di politica o praticare proselitismo. Non dovevano aumentare il numero dei seguaci: gli ingressi nei registri corrispondevano agli abitanti locali, obbligati a iscriversi al tempio di zona, indipendentemente dalle loro preferenze sulle scuole buddhiste.
La competizione era da abolire in ogni ambito, anche religioso.
Con la nascita dello Stato moderno in epoca Meiji, questo equilibrio venne stravolto. Lo shintoismo emerse come religione di Stato e il culto dell’imperatore fu imposto all’intera popolazione. Il buddhismo fu inizialmente riconosciuto come religione “straniera” e "opprimente". Subì persecuzioni e violenze: i simboli e i leader dei templi furono colpiti durante il movimento noto come haibutsu kishaku — “eliminare Buddha e distruggere Shakyamuni” — un episodio che portò alla distruzione sistematica di figure e strutture centrali per la religione nipponica.
Da quel momento, qualunque culto non conforme alle direttive statali poteva essere perseguito come 邪教 jakyō (“falso insegnamento”) e subire sanzioni.
Solo chi lavorava con lo Stato poteva evitare problemi e vivere senza interferenze. Alcune scuole zen, in particolare, cooperarono proponendo i propri insegnamenti come strumenti di disciplina morale e mentale utile alla formazione dei soldati. Durante la guerra russo-giapponese (1904–1905), monaci e testi zen vennero utilizzati per inculcare coraggio, autocontrollo e dedizione al sacrificio, trasformando la pratica spirituale in uno strumento di propaganda militare. Un caso che non rappresenta l’intero buddhismo giapponese, ma dimostra come la religione sia stata reinterpretata e utilizzata a fini politici, anche molto lontani dai suoi ideali originari.
In anni recenti, la libertà di culto sancita dalla Costituzione del 1947 ha inaugurato una nuova stagione religiosa in Giappone. Le scuole tradizionali sono rimaste saldamente inquadrate nel sistema nazionale, ma accanto a esse sono nati nuovi movimenti religiosi, desiderosi di colmare il vuoto lasciato dalla modernizzazione e dal crollo delle ideologie tradizionali.
La maggior parte di questi movimenti si è radicata pacificamente nella società, mentre alcuni sono finiti al centro di controversie — e uno, in particolare, si è macchiato di un grave crimine. È Aum Shinrikyō, responsabile dell’attentato alla metropolitana di Tokyo nel 1995, che trasformò un gruppo religioso marginale in un simbolo di minaccia sociale attraverso la religione.
Da allora, nel Sol Levante non si sono più verificati episodi di terrorismo legati a nuove religioni, ma nei media giapponesi queste organizzazioni continuano spesso a essere presentate sotto una luce negativa, con grande attenzione a comportamenti percepiti come controversi — scandali economici, politici o sociali.
Il dibattito si è acceso particolarmente dopo l’assassinio di Shinzō Abe nel 2022, quando l’opinione pubblica si è concentrata sulla ex Chiesa dell’Unificazione. Pur in assenza di processi o condanne penali nei suoi confronti, il governo ha avviato un procedimento civile e amministrativo che, proprio in quest’anno, ha portato alla revoca del suo status di ente religioso.
Il caso ha finito per ampliare la discussione, portando sotto i riflettori l’intero panorama dei nuovi movimenti religiosi e il loro posto nella società giapponese contemporanea.
Nel Giappone medievale, la religione era un mondo fluido e decentralizzato: le scuole nascevano, prosperavano e dialogavano; i seguaci si spostavano liberamente da un tempio all’altro e, pur immersa in un clima di violenza e abusi, la fede non costituiva il motore della guerra, poiché la salvezza non era il fine ultimo dell’impegno militare o comunitario.
Oggi, invece, sebbene le scuole tradizionali godano di ampia fiducia, il rapporto tra il pubblico e le nuove realtà religiose appare più teso.
L’attentato di Aum Shinrikyō, sebbene isolato, ha lasciato un segno profondo nell’immaginario collettivo, generando un clima di diffidenza che, negli anni, si è esteso anche sul piano economico e politico.
In questo contesto, per un nuovo culto è oggi più difficile ottenere legittimità e radicarsi nella società: la diffidenza pubblica, il controllo amministrativo e il panorama religioso già consolidato rendono complicata la sua crescita, segnando un netto contrasto con il dinamismo del Giappone medievale.