La toga e la katana: quando i monaci incontrano i samurai


La toga e la katana: quando i monaci incontrano i samurai

Il rapporto tra i monaci e i samurai ha plasmato il corso del Medioevo giapponese.

Il mondo religioso e quello laico giacevano su due piani paralleli, che però erano saldamente legati tra loro. Esistevano tante scuole buddhiste e ogni samurai aveva le proprie preferenze, ma, più che la fede nutrita dal singolo, ciò che contava erano i buoni rapporti di vicinato tra un clan di samurai e le comunità monastiche locali.

Nel Giappone esisteva una regola che, anticamente, era molto rigida: non bisognava uccidere un monaco, mai, per nessun motivo. Con l'ascesa dei samurai questa regola subì di fatto una variazione: non bisognava mai uccidere un monaco... a patto che questi non avesse minacciato il dominio del proprio clan. Durante il Medioevo, i monaci hanno preso le armi per perseguire mire politiche in contrasto con quelle dei samurai, e i guerrieri hanno reagito a queste ingerenze.

Tuttavia, il rapporto tra clero e classe dominante era solitamente armonioso.

La regola di non far del male ai monaci innocui consentiva ai samurai di avvalersi di certe figure religiose come latori di messaggi. Molte lettere importanti scritte dai grandi signori feudali venivano recapitate da monaci itineranti. I bonzi viaggiavano tra un feudo e l'altro, e non aveva davvero importanza chi possedeva i terreni su cui si fermavano: nessuno poteva far del male ai monaci in viaggio o anche solo ostacolare la loro missione.

Abbiamo il caso di Sakugen Shuryo, un monaco zen che prima sostenne il clan Ouchi, nel sud del Giappone, partecipando ad alcune importanti missioni diplomatiche in Cina. Poi visitò le terre dei Takeda, a est, fermandosi nel tempio di Erin, uno dei più importanti di quel clan. Infine, andò da Oda Nobunaga ed ebbe con lui scambi di natura culturale.

Non tutti, però, sceglievano di tenersi al di sopra delle parti. Ci sono stati casi di monaci che si sono stabiliti in un feudo e vi sono rimasti, diventando di fatto servitori di uno specifico signore feudale.

A tal proposito possiamo fare il nome di Kaisen Joki, anch'egli monaco zen, che si trasferì presso i Takeda e divenne abbate del tempio di Erin, ma, a differenza di Sakugen Shoryu, restò a ricoprire quella carica fino alla propria morte.

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A volte i monaci non si limitavano a prendere le parti di uno specifico signore di samurai interloquendo con le divinità in suo favore, ma contribuivano alla prosperità del clan anche in campo bellico.

Questo è il caso di Daigen Sessai, che servì il clan Imagawa addirittura come stratega militare del capo Yoshimoto. Sessai viveva in un tempio della scuola Rinzai, ma decise di impegnarsi attivamente nella politica del clan Imagawa. Questo monaco zen non aveva probabilmente esperienza di combattimento, ma prese parte ad alcune importanti battaglie in veste di generale. Fu anche estremamente importante come mediatore, e alcuni importanti accordi di pace tra gli Imagawa e altri clan avvennero grazie anche al suo contributo.

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Il caso di Sessai è particolare, ma accadeva piuttosto di frequente che uomini che avevano svolto il rito della tonsura si occupassero di politica e faccende mondane. Molti ragazzi mandati a vivere nei monasteri di provincia erano figli di samurai e, complice anche le regole molto elastiche, era normale che un uomo passasse dalla vita religiosa a quella laica con una certa disinvoltura.

Ma i monaci sul territorio dovevano sottostare alle esigenze del clan, prima di ogni altra cosa.

Quando il capo del clan Nagao morì e ci si rese conto che il ragazzo che era stato scelto come erede non era all'altezza del compito, alcuni servitori andarono in un tempio a richiamare uno dei fratelli del nuovo leader, con l'intenzione di convincerlo a sfidare il giovane signore per il comando. Il ragazzo acconsentì, lasciò il tempio dove viveva, sconfisse il fratello e passò poi alla storia con il nome di Uesugi Kenshin, uno dei più grandi signori feudali di epoca Sengoku.

Curiosamente, in un periodo particolarmente difficile, Kenshin perse la pazienza e, per ragioni non chiare, annunciò di voler tornare alla vita religiosa: la vita che aveva lasciato tempo prima per esaudire le richieste dei servitori di suo padre. Questo episodio ci lascia intuire che Kenshin non aveva abbandonato i voti religiosi per inseguire un'ambizione, ma per una responsabilità che sentiva di avere nei riguardi della sua gente: se la propria famiglia era in pericolo, un guerriero aveva il dovere di tornare alla vita laica per rimettere le cose a posto, e doveva restarvi finché fosse necessario. Alla fine, l'annuncio di Kenshin si rivelò essere un semplice sfogo utopistico. Il suo clan era appena entrato in una faida profonda con il clan Takeda, e gli Uesugi avevano bisogno di lui. Il suo desiderio di fuga passò in secondo piano.

Questo senso di urgenza è esattamente quello che provarono gli anziani samurai del clan Takeda quando il loro signore Katsuyori gli chiese di uscire dai templi e tornare a imbracciare le armi in difesa del suo clan.

I Takeda avevano perso una tragica battaglia a Nagashino. Quel giorno morirono tanti giovani samurai di mezz'età che avevano ereditato il comando della propria famiglia, consentendo ai propri padri di ritirarsi nei templi. Prendendo atto dell'ecatombe generazionale, gli anziani in ritiro dovettero riprendere la via delle armi per proteggere le proprie famiglie dal rischio dell'annientamento.

I nemici dei Takeda risero del disperato appello di Katsuyori, scrivendo nelle loro lettere che quella migrazione di massa dalla dimensione spirituale a quella mondana fosse un fatto "senza precedenti", con tono di scherno e sufficienza. Ma la scelta di Katsuyori si rivelò azzeccata e il clan Takeda riuscì a sopravvivere alla crisi, mantenendo il dominio sul Giappone orientale per altri sei anni.

Giovani o anziani, diplomatici o strateghi: tutti coloro che vivevano in un tempio sapevano che la vita che avevano scelto (o che in certi casi gli era stata imposta) non era mai definitiva. Un giorno, quando meno se lo sarebbero aspettato, la politica avrebbe potuto tornare a bussare alle porte del proprio tempio, e loro avrebbero dovuto farsi trovare pronti.