Gli antichi giapponesi erano vegetariani?


Gli antichi giapponesi erano vegetariani?

I giapponesi erano tradizionalmente vegetariani?


Sì e no. Il consumo di carne era soggetto a tabù variabili a seconda dell’epoca e del contesto sociale. Nei templi buddhisti, ad esempio, persino il pesce era vietato, mentre in altre situazioni si consumava la carne di animali selvatici o considerati “di poca utilità”.

Il Giappone è un Paese montuoso, ma l’allevamento non era molto diffuso, e le poche terre piane disponibili venivano destinate principalmente alla coltivazione del riso. Inoltre, la religione attribuiva sacralità a certi animali, mentre altri erano considerati impuri e quindi da evitare.

Ecco qualche esempio:


Maiali, pecore e capre: quasi inesistenti, salvo pochi esemplari dalla Cina. Erano raramente presenti nella dieta.


Polli: in tempi antichi considerati sacri, ma nel Medioevo il loro consumo divenne più tollerato, almeno tra i laici.


Cinghiali: selvatici e dannosi per l’agricoltura; il loro abbattimento era accettato e il consumo diffuso.


Cervi: nocivi come i cinghiali, ma sacri in certe regioni (come a Nara) e da non toccare, altrove consumabili.


Cani e scimmie: considerati impuri, non consumati.


Gatti: introdotti dalla Cina, erano utili in quanto cacciavano topi; scacciare, uccidere o mangiare felini portava sfortuna, e andava evitato, se non in casi di carestia.


Cavalli e buoi: animali "amici dell'uomo". Erano utili per trasporto, guerra e lavoro agricolo; mangiarli era un crimine gravissimo.


In epoca pre-moderna il consumo di carne fu uno dei punti di attrito tra missionari europei e giapponesi. Portoghesi, spagnoli e italiani portarono le proprie abitudini alimentari nel Sol Levante, suscitando indignazione.

Nel 1587 Toyotomi Hideyoshi, signore del Giappone, emanò il bando contro i missionari. Le ragioni furono principalmente religiose – il cattolicesimo era visto come una minaccia all’ordine – ma tra gli articoli che motivano l'ordinanza compariva anche il consumo di carne bovina: gli animali a cui i giapponesi tenevano di più erano considerati una prelibatezza dagli occidentali.


Durante l'epoca Edo i divieti di carne furono resi ufficiali, ma curiosamente alcune pietanze si diffusero lo stesso.

Il basashi – ovvero sashimi di cavallo – arrivò dalla Corea grazie a un samurai di Kumamoto, diffondendosi poi nel resto del Paese. Il karaage, oggi pollo fritto, nacque come tecnica di frittura per il pesce, poi estesa alle carni.


Esistevano anche stratagemmi per consumare animali senza destare scandalo: nei negozi il cinghiale era venduto come “balena di montagna”, e altre creature avevano nomi in codice:

cavallo = sakura,

cervo = foglia autunnale,

manzo = quercia.

Lo shogunato vietava formalmente la carne, ma il proibizionismo era di facciata.


Oggi la clandestinità è finita.

In Giappone la carne è onnipresente: dalla cotoletta di Tonkatsu, al pregiato manzo di Kobe, fino alla lingua di bue di Sendai...

Eppure, tutte queste specialità sono arrivate tra la metà dell’Ottocento e il secondo dopoguerra. Per gran parte della sua storia, il Giappone ha vissuto invece in un equilibrio alimentare in cui la carne occupava un ruolo marginale, limitato da fattori religiosi, culturali e ambientali.