Nel post precedente abbiamo visto come, nel Giappone medievale, il panorama religioso fosse sorprendentemente aperto: buddhismo e shintō convivevano, i monaci si sfidavano in dibattiti pubblici e i fedeli passavano da una scuola all’altra senza problemi.
La fede univa le comunità, e l’attaccamento a dottrine specifiche raramente generava barriere — ma non per questo tutti vivevano in pace.
Dietro il pluralismo si celava un’altra realtà: la violenza tra i templi.
I monaci di alcune scuole attaccavano quelli di altre, abbattevano edifici, rapivano adepti e imponevano tributi. Non lo facevano perché disprezzavano gli insegnamenti dei rivali, ma per motivi economici: potere, risorse, prestigio.
Un esempio famoso è la distruzione del tempio di Hongan a Kyoto nella seconda metà del XV secolo. I monaci di Enryaku-ji, della scuola Tendai, perseguitarono per anni i buddhisti di Hongan-ji fino a distruggere il loro monastero principale. Li odiavano per l’influenza crescente che stavano acquisendo nella capitale, ma non volevano annientarli del tutto: le loro dottrine, incentrate sul Buddha Amida, non erano percepite come una "eresia", o una minaccia esistenziale per la scuola Tendai.
Hongan-ji fu quindi devastato, ma il culto non scomparve.
Rinacque più forte, divenne una vera potenza politica e, con il sostegno delle masse popolari e della lega degli ikkō-ikki, arrivò a sfidare persino Oda Nobunaga. Contrariamente a quanto si crede, le sue rivolte non avevano scopi millenaristici: non cercavano di instaurare un paradiso di Amida sulla Terra, ma lottavano per sopravvivere e per proteggere i fedeli nel modo in cui i samurai non riuscivano più a farlo.
Quando si combatteva, gli abati evitavano di promettere salvezza ultraterrena ai soldati in cambio dei loro servizi. La redenzione veniva solo dal nenbutsu, la recitazione del nome di Amida.
Gli adepti prendevano le armi per non subire l’emarginazione: chi si tirava indietro veniva criticato e svergognato. La partecipazione era quindi intesa come “gesto di gratitudine” per la salvezza già ottenuta: lo stigma sociale era un deterrente così potente da spingere molti a sfidare la morte.
La violenza delle masse scaturiva quindi dal senso di appartenenza alla comunità, e la promessa del paradiso non veniva usata come strumento di ricatto.
La fede era l’unico collante capace di unire persone di classi sociali diverse: contadini, pescatori, piccoli mercanti…
A differenza dei samurai, le genti umili non condividevano antenati, non avevano legami di sangue, ma la religione offriva loro qualcosa di più grande: una rete sociale che trascendeva l’origine o la posizione nella società. Per la gente comune, era l’unico modo per convincersi a unire le forze con degli estranei per combattere i propri oppressori.
Tuttavia, alla fine il potere “popolare” fu infranto. Hongan-ji venne demolito. Oda Nobunaga alternò violenza e diplomazia, e alla fine la base amidista di Osaka capitolò. Con la successiva unificazione del Giappone, le scuole buddhiste persero il ruolo di “sostituti dei samurai”: non ci furono più abati capaci di guidare masse rurali contro la classe dominante.
Gli equilibri cambiarono: la lunga pace dell’epoca Edo portò nuovi rapporti di potere tra Stato e templi, e con l’arrivo dell’era Meiji la religione divenne parte dell’identità nazionale, fino a essere regolata e separata con forza.
Nel prossimo post vedremo come il pluralismo dinamico del Giappone medievale lasciò spazio a un nuovo ordine religioso, molto più controllato e sospettoso.